SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Introduzione (II parte)

a cura di Eide Spedicato Iengo

Nondimeno, negli autori proposti, non sembra esserci consapevolezza della specificità e del peso del modello borghese nella città precapitalistica. Lo provano, appunto, le annotazioni su Aix en Provence. Anche di Aix en Provence si sottolineano gli  elementi mobili. Ma è proprio il modo con cui vengono decritti, a ricondurre tutto il discorso, anche quello precedente su Livorno (che non poteva alludere a una qualche sensibilità nuova) a una medesima poetica urbana. Identici elementi di arredo urbano vengono considerati, peraltro, sia gli abitanti di Livorno, che, come nota De Brosse, sono di tutte le razze d'Europa e d'Asia, da cui "una vera fiera di maschere" (che richiama una cultura mercantile e borghese), sia le lettighe decorate di stemmi e rivestite di velluto di Aix en Provence. Anche le sottolineature, per esempio di uno Chateaubriand, sul contesto urbano e sul paesaggio rinviano, comunque, ed elementi solo aristocratici ed eleganti. Di Venezia, per esempio, Chateaubriand annota la perfetta sintonia tra la Basilica, il palazzo dei Dogi, le Procuratie Nuove, la Zecca, la Torre dell'Orologio, il campanile di S. Marco, la colonna del Leone, e le vele, gli alberi delle navi, il brusìo della folla, l'azzurro del cielo e del mare. (9)

Anche il primo Romanticismo e l'Ottocento in genere, rieditano, dunque, la poetica settecentesca, pur nella precisazione di nuove sensibilità. Un ulteriore esempio è offerto da Leopardi  (10). Leopardi confuta le estetiche normative e le definizioni aprioristiche dei concetti di ordine e di proporzione, asserendone la relatività storico-ambientale. Ma anche in Leopardi l'opposizione alla filosofia settecentesca si traduce, di fatto, in una nuova normatività: cambiano solo i riferimenti, mentre le valutazioni ribadiscono e riflettono anch'esse uno statuto solo estetico.

Va da sè che tali poetiche esorcizzano ed occultano ogni aspetto «visivamente degradante», come le unità ecologiche dei quartieri popolari. Sempre De Brosses definisce non a caso, Vicenza «brutta e sgradevole», perchè «le sue belle case oltre ad avere l'aria triste non hanno per contorno che miserabili capanne, che la rovinano del tutto». (11)

Ma De Brosses non è il solo. Pure Rousseau entrando a Parigi dal sobborgo Saint-Marceau, non può fare a meno di deprecare "le stradette sudice e puzzolenti", le "case nere", "l'aria di sporcizia e di povertà". (12)

Anche l'espediente di sorprendere le città dall'alto (13) (o dal mare, come succede a Montesquieu), attraverso un'osservazione sempre più costruita ed artefatta (questa osservazione vale anche per il Romanticismo), permette in ogni caso di evitare il fastidio creato dalla vista delle masse popolari che, in particolare nell'età preindustriale, occupavano il centro della città. Beninteso, questi autori, nei loro reportages, non tacciono delle classi popolari. Tutt'altro: le annotazioni abbondano. Ma obbediscono ad una comune ideologia (vuoi nella versione illuministica, vuoi nella versione romantica), che trascura la matrice della disgregazione delle masse popolari, prescinde dalla connessione dei diversi parziali momenti del sistema urbano, soggettivizza le situazioni oggettive, e tende a favorire descrizioni impressionistiche. In altri termini, giova ribadire che la letteratura illuministica e romantica sulle classi popolari, è permeata da un'analoga filosofia, che si traduce nel programmatico rifiuto di quelle classi. Nè devono indurre a valutazioni diverse le espressioni bonarie e di generale simpatia che, per esempio, un Goethe o un Chateaubriand (quali casi emblematici) spendono a proposito dei lazzaroni, dei perdigiorno, dei vagabondi di Napoli. Si tratta in ogni caso di atteggiamenti indulgenti, divertiti, im qualche caso addirittura estetistici, sotto i quali, però, l'intellettualità occulta la condizione degradata delle masse cittadine, e riafferma l'idea della naturalità delle disuguaglianze (14). Ne è prova, precisamente, la graduale espulsione del popolo (e della classe operaia) dal centro delle città. Questo allontanamento dal punto di vista abitativo comincia, appunto, intorno agli anni cinquanta del '700, e si attua attraverso più versioni: con veri e propri programmi urbanistici (15), con operazioni repressive (tipo "casa di correzione dei poveri") (16), con soluzioni indotte di tipo economico (17), o ancora con progetti ghettizzanti (18).

Il fastidio visivo creato dalla masse popolari, viene attualmente ribadito anche nella poetica di isolamento delle grandi opere ( e perciò, dei prodotti delle classi dominanti) dalle "brutture plebee". Espressioni in tale direzione si trovano in Montesquieu, già nel 1728, nel sio soggiorno romano; se ne ha conferma in De Brosses undici anni dopo; permangono in Voltaire, quando questi lamenta la posizione del Louvre soffocata da "costruzioni di Goti e di Vandali", e da "strade strette"; persistono nel Romanticismo. Dickens, per esempio, nel descrivere la città vecchia di Genova, ne sottolinea la sporcizia generale, i vicoli, le case troppo alte e dipinte con ogni specie di colore, le bottegucce paragonabili a "vermi parassiti d'una grande carcassa".

Nell'800, anche quando in nome della storia si rifiuta "l'idea della città costruita per volontà di uno solo piuttosto che per voontà collettive" (19), va sottolienato che tale ipotesi poggia su criteri che appaiono ancora aristocratici e normativi. al riguardo, le pagine di Heine su Monaco e Berlino sono esemplari. Ma più significative sono le pagine, sempre di Heine, su Londra. Qui, in più, si coglie un evidentissimo storicismo romantico, e cioè il fastidio dell'uniformità architettonica industriale, che rinvia, indirettamente, all'incapacità di comprensione della società meccanica. Non a caso, Londra viene paragonata a una foresta pietrificata di case, e attraversata da un "fiume impetuoso di vive facce umane con tutto l'arcobaleno delle loro passioni, con tutta la loro fretta disperata di amore, di fame, di odio..." (20) palmare in questa frase, anche il topos letterario a identificare la vita metropolitana con un sistema di "imbarbarimento", che "opprime la fantasia e spezza il cuore" (21). Ciononostante Heine sa che la città industriale è costituita in massima parte dai nuovi quartieri popolari, che nascondono la loro "molta miseria". Ne fa fede questa pagina del 1828: "pigiata in vicoli fuori mano e in stradicciuole umide e buie, abita la miseria coi suoi stracci e le sue lacrime. Perciò, lo straniero che passeggia per le grandi vie della città e non capita proprio nei quartieri popolari, non vede nulla o poco della molto miseria che si annida a Londra" (22). Ma neppure Heine ci sembra interpreti questo schema urbano come effetto dell'organizzazione sociale della produzione, e nei suoi riflessi di conflittualità di classe. Si limita ad osservazioni ancora solo descrittive.

Ad un'analoga interpretazione sono riconducibili gli spunti dickensiani, sia nei toni di anto-industrialismo, prevalenti nelle note su Lione e Marsiglia, sia nelle riflessioni illuministiche su Napoli. Si è, comunque, ben lontani, per esempio, dalle pagine contemporanee di Engels su Manchester (23).

Un tentativo di "globale superamento dell'antitesi Illuminismo-Romanticismo" (24) sembra cogliersi in John Ruskin, con il suo The stones of Venice. Vale peraltro ricordare che questo testo, pur essendo indicativo della cultura del tempo, e riassuntivo di più sollecitazioni intellettuali precedenti, non supera il dettato tipicamente letterario. Si risolve in valutazioni molto raffinate ma sempre ed esclusivamente estetiche. Anche per Ruskin, comunque (anche se da queste pagine non si rileva direttamente), l'ambiente metropolitano si carica di contenuti negativi che rinviano, esplicitamente, alle dicotomie classiche di natura-cultura, istinto-razionalità, società tradizionale e comunitaria società moderna e contrattuale.

Invece, pur da un'angolazione diversa, un esempio di definizione teorica dei rapporti tra ambiente urbano e organizzazione sociale, è fornito da Friedrich Nietzsche. diciamo subito (lo chiarisce del resto già il titolo del capitolo (Un appunto su Nietzsche) che vengono proposti qui solo alcuni spunti del pensiero nietzschiano, e per due prevalenti motivi: perchè Nietzsche compendia e reimpiega molti degli elementi centrali del dibattito sulla città industriale, e perchè anticipa parte dei temi che troveranno ampio spazio nella letteratura successiva sulla città.

E infatti, l'espansione dei riferimenti è praticamente immediata. Nell'idea dell'isolamento personale è evidente, per esempio, una strategia elitistica, già incontrata. Tuttavia, va almeno ricordato che in Nietzsche questa proposizione dell'immagine aristocratica dell'ambiente urbano, non limita l'efficacia di investigazioni di più ampia portata, in particolare di annotazioni di psicologia sociale. Non a caso viene spontaneo associare al nome di Nietzsche quello di Simmel. Questi praticamente ne ribalta la posizione teorica attraverso due referenti: l'atteggiamento blasè e la riservatezza quali aspetti tipici e funzionali dell'urbanità, e non quali tratti patologici dell'organizzazione della città (25).

E del resto, è proprio Simmel a sottolineare l'elemento romantico e radicale nella speculazione di Nietzsche (e di Ruskin) quando afferma: «l'odio appassionato di uomini come Ruskin e Nietzsche per la metropoli è comprensibile in questi termini: le loro nature ponevano il valore della vita solo in un'esistenza al di fuori degli schemi, e tale da non poter venire definita con la stessa precisione in tutte le sue parti. Quest'odio per la metropoli ha la stessa origine della loro avversione per l'economia del denaro e per l'intellettualismo della vita moderna». (26)

Ed è sempre Simmel che spiega così il "successo", precisamente metropolitano, del pensiero nietzschiano. «L'atrofia della cultura individuale attraverso l'ipertrofia della cultura oggettiva, è una ragione dell'odio profondo che i predicatori dell'individualismo più estremo, primo fra tutti Nietzsche, provano nei riguardi della metropoli e la ragione per cui all'individuo metropolitano appaiono come i profeti e i redentori dei suoi desideri più repressi». (27)

Non diciamo altro. Si era partiti dall'ipotesi che la nozione di gusto, elaborata dai trattatisti settecenteschi (pur tra modifiche), si è riprodotta nella tradizione europea degli studi sulla città, e non si è quasi mai configurata con la dimensione storica e sociale della realtà urbana. La lettura degli autori proposti ha ribadito pertanto due canonizzazioni:

  1. il gusto quale espressione di una facoltà a sè, è criterio per giudicare gli oggetti del sentimento;
  2. la città è uno spazio, un'immagine, una struttura ecologica, ma non è assolutamente nè l'espressione nè la traduzione di fenomeni di classe.

Ovviamente, sarebbe fuorviante cercare articiose modernità nelle considerazioni illuministiche e romantiche sul gusto urbano. Non c'è alcun precursore (in senso moderno) nei pensatori del passato, nè si coglie alcuna costruzione teorica: solo qualche sintomo del nesso fra una struttura socio-economica in mutamento e il complessivo quadro urbano. Come si diceva, l'orientamento prevalente, modellato su una nozione di gusto astratta e metastorica, ha escluso ogni effetto legato alla trasformazione delle forze sociali e dei rapporti di produzione.

Va da sè che il tracciato di questa tendenza ha elìso dal giudizio estetico della città precisamente ogni fattore dinamico, ha esautorato ogni categoria sociale ed economica e (pur negli esisti diversi, illuministici e romantici) ha riaffermato la costante filosofia della nozione di gusto. Anche dove è stato percepito un qualche rapporto di filiazione tra l'industrializzazione e il disordine urbano, ci si è serviti generalmente della formula anodina del descrittivismo acritico. Quando poi non si potuto tacere delle tensioni sociali, implicite nel pensiero urbano, o le si è recuperate quali espressioni del desueto, quasi costituissero un modulo di espressività estetica (i lazzaroni di Goethe e di Chateaubriand), o le si è ignorate (come è avvenuto in M.me de Stael o in Stendhal), oppure (come in Nietzsche) le si è esorcizzate, vagheggiando scenari architettonici propizi solo al meditare e al solitario andare dell'artista. La città, dunque, non emerge mai quale palcoscenico in cui le classi sociali e le categorie economiche recitano il proprio ruolo, e modificano la stessa leggibilità estetica. Neppure indirettamente.


(9) p. 105

(10) pp. 111-122

(11) p. 39

(12) p. 4

(13) Stendhal, addirittura, fornisce nelle Promenades dans Rome un elenco di posti elevati da cui guardare la città.

(14) Si consideri al riguardo, quanto scrive Goethe nell'Italienische Reise: «...Non si fa quattro passi...senza imbattersi in gente malvestita, anzi addirittura lacera; ma questa non è una ragione per gridare al vagabondo, al perdigiorno...Noi non ci facciamo un concetto troppo esatto della meschina condizione di questi uomini; il loro principio di rinuncia è favorito da un clima largo di tutti i doni. Un uomo povero , che a noi sembra un miserabile, può in questi paesi non solo soddisfare i suoi bisogni più urgenti e più necessari, ma anche godersi beatamente la vita, un così detto lazzarone napolitano potrebbe infischiarsi del posto di vicerè di Norvegia e rifiutare l'onore che gli farebbe l'imperatrice di Russia nominandolo governatore in Siberia» (cfr. F. IENGO, Scrittori e metropoli tra Illuminismo e Romanticismo, Romam de Feo, 1983, pp. 161-171). Un identico atteggiamento, ma con accenti più estetizzanti, si riscontra in Chateaubriand che, precisamente nel 1809, annota: «Il napoletano seminudo, contento di sentirsi vivere sotto l'influenza di un cielo propizio, rifiuta di lavorare appena abbia guadagnato l'obolo che basta al pane quotidiano. Egli passa la metà della vita immobile sotto i raggi del sole e l'altra metà a farsi trascinare in un carro mandando grida e gioia; di notte si getta sugli scalini di un tempio e dorme incurante dell'avvenire, accovacciato innanzi alle statue degli dei» (F.R. De CHATEAUBRIAND, les Martyres, lib. V, in Oeuvres Romanesques et voyages, tomo II, Bibliotèque de la Plèiade, Paris, Gallimard, p. 176). Entrambe queste citazioni si trovano sempre in F. IENGO, op. cit., cfr. le pp.166-67. Per una visione d'insieme sul nesso metropoli-classi popolari, si considerino dello stesso, in particolare le pp.161-225.

(15) Le pagine di Engels sui quartieri operai di Manchester sono illuminanti al riguardo. Cfr. F. ENGELS, Die lage der arbeitenden Klasse in England, Leipzig 1845, trad. it. La situazione della classe operaia in Inghilterra nel 1844, Roma, Rinascita, 1955

(16) Sono numerosi i documenti su tale tipo di provvedimento. si ricordino, tra gli altri, quelli proposti da Diderot, da Vittorio Alfieri o da Cesare Cantù.

(17) Luis Villermè, per esempio, nel 1840, a proposito della situazione in Francia, così si esprimeva: "il livello degli affitti non permette agli operai cotonieri del dipartimento dell'Alto Reno, che guadagnano i salari più bassi e che hanno sempre spese maggiori, di abitare sempre vicino alle loro fabbriche... Da qui nasce la necessità, per i più poveri, che non sarebbero in grado... di pagare gli affitti al livello elevato in cui si trovano, di andare ad abitare lontano dalla città, a una lega, a una lega e mezzo, e persino più lontano, e di fare perciò ogni giorno a piedi due o tre leghe per andare al mattino alla fabbrica e tornare a casa la sera". Cfr. L. VILKLERMÈ, Tableau de l'ètat phisique des ouvriers employès dans les manifactures de coton, de laine, de soie, Paris, 1840.

(18) Ricordiamo, quale caso emblematico, il quartiere Kolomna di Pietroburgo, citato da Puskin e da Gogol, interamente popolato da pensionati, da gente "cinerea". Cfr. N.V. GOGOL, Il ritratto, in Racconti di Pietroburgo, trad. it., sempre in F. IENGO, op. cit., p.193

(19) p. 142

(20) Cfr. J.H. HEINE, Germania e Inghilterra (impressioni di viaggio) (Reisebilder, 1824-1831), trad. it., Milano, Rizzoli, 1956, pp. 184-188

(21) p. 149

(22) J.H. HEINE, op. cit., p. 187

(23) "Manchester racchiude nel suo centro un quartiere commerciale abbastanza esteso, lungo e largo un mezzo miglio circa, formato quasi esclusivamente da uffici e magazzini. Quasi tutto il quartiere è disabitato e durante la notte è silenzioso e deserto; soltanto gli agenti di polizia passano con le loro lanterne cieche, attraverso alle strade strette ed oscure. Questo quartiere è tagliato da alcune  strade principali nelle quali si svolge il traffico enorme ed i cui pianterreni sono occupati da brillanti negozi; in queste  strade si trovano qua e là spazi abitati e v'è anche sino a tarda ora abbastanza vita. Eccettuato questo distretto commerciale, tuta la vera Manchester... tutto è quartiere operaio che si distende come una cinta larga un miglio e mezzo attorno al quartiere commerciale. Oltre questa cinta abita la grassa e media borghesia - la media in vie regolari presso il quartiere operaio... la grassa nelle lontane case con giardini a forme di ville in Chorlton e Ardwich o sulle arieggiate di Cheetham Hill, Broughton e Pendleton, in un'aria libera e pura, in abitazioni comode e sontuose, innanzi alle quali passano ad ogni mezz'ora o ad ogni quarto d'ora gli omnibus che conducono alla città. Ed il più bello della cosa è che questi aristocratici del denaro per recarsi nei loro uffici nel centro della città per la via più breve, possono attraversare tutti i quartieri operai senza accorgersi d'esser vicini alla più sudicia miseria che si trova a destra e a sinistra" (Cfr. F. ENGELS, op. cit., pp.84-85). Precisamente questa segregazione della classe operaia ne accentua la decomposizione sociale. E' ancora Engels a descrivere le conseguenze estreme di questa situazione. "E se oltre alle consuete conseguenze dell'ubriachezza si pensa che uomini e donne di tutte le città, perfino i fanciulli, spesso anche madri con i loro piccoli in braccio, si incontrano qui (Engels sta parlando di una beer-house operaia di Manchester) con le vittime più degradate del regime borghese, con ladri, truffatori e prostitute, se si pensa che molte madri danno da bere acquavite al lattante che tengono in braccio, non si potrà non ammettere l'effetto abbrutente che questi locali esercitano sui loro frequentatori. Particolarmente il sabato sera, quando viene pagato il salario, e il lavoro cessa un pò prima del solito, quando tutta la classe degli operai dai suoi brutti quartieri si riversa sulle strade principali, si può vedere l'ubriachezza in tutta la sua brutalità. Raramente in una di queste sere sono uscito da Manchester senza incontrare un gran numero di ubriachi barcollanti o sdraiati nei rigagnoli" (idem, p. 163)

(24) p. 169

(25) Simmel così spiega l'atteggiamento mentale degli abitanti della città moderna: "... il tipo d'uomo metropolitano - che naturalmente esiste in migliaia di varianti individuali - sviluppa un organo che lo protegge dal clima minaccioso che gli sta attorno e che lo sradicherebbe, e cioè reagisce coll'intelletto invece che col cuore, e con questo processo, una consapevolezza accresciuta diviene la prerogativa psichica. Così, la vita metropolitana presuppone una consapevolezza eccezionale e la predominanza dell'intellettualità nell'individuo metropolitano: la reazione al fenomeno metropolitano è traferita all'organo meno sensibile e più periferico rispetto all'essenza della personalità. La facotà intellettuale serve così da difesa alla vita soggettiva contro il potere opprimente della vita metropolitana, e nello stesso tempo la facoltà intellettuale si dirama all'esterno in molte direzioni e risulta integrata a numerosi fenomeni diversi". G. SIMMEL, Die Grosstädt und das Geisteleben, (1903); è riportato in Città e analisi sociologica, a cura di GUIDO MARTINOTTI, Padova, Marsilio, 1968, p.276

(26) Ibidem, p. 279

(27) Ibidem, p. 288


Theorèin - Febbraio 2005